Il lungometraggio d’esordio di Florian Henckel von Donnersmarck è uno sguardo avvincente sullo spionaggio nella ex-Germania dell'Est
Un uomo dallo sguardo perso nel vuoto prende un ascensore nella Berlino Est del 1984. Poco prima che le porte si chiudano, un pallone da calcio rotola dentro, seguito dal suo piccolo proprietario. Le porte si chiudono. L’ascensore inizia a salire. Il bambino guarda l’uomo e chiede: "È vero che lavori per la Stasi?". L'uomo ribatte prontamente, da quell'esperto inquisitore che il pubblico ha visto in azione: "Chi lo dice?". E il giovane risponde: "Mio padre". Senza perdere un colpo, l’uomo insiste: "E allora, qual è il nome di..." ma si ferma a metà frase. "Di cosa?", chiede il bambino. Qualche secondo di silenzio. "Del tuo pallone...", chiede l’uomo, con tono stupito, come se non riuscisse a credere alle sue stesse parole. "Sei pazzo!" esclama il bambino, "i palloni non hanno un nome!" Questa breve scena, che dura meno di due minuti, è solo la prima crepa sulla facciata di un irreprensibile capitano della Stasi, strenuo difensore e insegnante dello spionaggio di stato in Germania Est, molti anni prima della caduta del muro di Berlino. Le vite degli altri , dello sceneggiatore-regista Florian Henckel von Donnersmarck delinea la vicenda immaginaria di quest’uomo, Hauptmann Gerd Wiesler (Ulrich Mühe). Una pellicola che va oltre i giochi pirotecnici dei thriller più roboanti e delle spy-story più eccitanti per approdare a qualcosa che penetra davvero sotto la pelle. Il tipo di dramma dallo stile sottile e acuto che passa per il cervello prima di raggiunge il cuore.
Sei riuscito a vedere le vite degli altri, ribadisco, uno dei più bei film che ho visto negli ultimi 5 anni, (forse più... ), ... da occhi lucidi.
RispondiEliminaDelicato, triste, sorprendente, angosciante, scioccante...grande verità sulla Germania che fu...e che forse ancora è?
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